leggendo “Le pergamene aragonesi
(V) della Mater Ecclesia Capuana
1455-1459” di Giancarlo Bova
Delle carte lasciate in eredità dalla
Storia, da cercare, ordinare,
interpretare, si prende cura lo storico,
come fa Giancarlo Bova, ricercatore,
lettore e commentatore delle pergamene
(normanne e sveve, nelle passate
pubblicazioni; angioine e aragonesi,
nelle più recenti) della Mater
Ecclesia Capuana, attraversando i
ponti di collegamento dal Cento al
Duecento medioevale fino al Quattrocento
già moderno, con l’occhio attento alle
costruzioni istituzionali nonché vigile
alle relazioni umane.
Qui l’algida ingegneria notarile si
combina con una calda partecipazione
sociale, che toccano in prima persona lo
storico e che coinvolgono chi lo segue.
Noi, lettori di Storia, siamo i suoi
seguaci, attratti dalle curiosità del
ricercatore, che si avventura tra
ardue letture di pergamene erose dal
tempo, lettere scolorite a cui ridare
colore, corpi lacerati da risanare.
Gutenberg non basta, non basta l’online,
ci vuole lo storico, a provarsi nelle
silenziose stanze del passato, a
disvelarne i segreti, a dargli voce.
Così può accadere che sotto la lente
d’ingrandimento dello storico la minuscola scrittura gotica narri gli atti
degli uomini, lasciando intuirne i
sentimenti, senza limitarsi alle loro
definizioni sociali.
In tal modo, la storiografia
contribuisce alla conoscenza dell’uomo,
della vita nel turbinìo del tempo, di un
tempo in cui non tutto è confermato,
alcune certezze s’incrinano.
Qualcosa pulsa nel Quattrocento, il
1455-1459 è il periodo indagato da Bova,
sono gli ultimi anni di Alfonso il
Magnanimo, il re utriusque Siciliae,
e i primi di Ferdinando I, Ferrante,
sovrani rinascimentali, chiamati dalla
Storia a rapportarsi con la nuova
società urbana, senza perdere di vista
gli avversari angioini sempre in agguato
e senza sottovalutare l’attivismo
clericale talvolta invadente.
È attraverso il filtro della Chiesa
capuana che passano le Carte: di
concessione, di donazione, di
locazione, di vendita; sotto la Sua
matria potestà si susseguono i
giuramenti, i testamenti, le
emancipazioni; si bonificano i terre-
ni, si ristrutturano gli edifici, si
guariscono i corpi e le anime.
Sulle figure del giudice, del notaio,
dei testimoni, spicca l’immancabile
canonico che, ad sonum campanelle,
dà il consenso a operazioni immobiliari
quali locazioni e vendite, fatte,
diremmo in termini più prosaici, a suon
di tarì d’oro e carlini d’argento da
versare alla congregazione religiosa di
appartenenza.
Le donazioni, le tasse di entratura,
la riacquisizione delle terre occupate
abusivamente, ci dicono di una certa
febbrilità finanziaria della Chiesa.
Ma ad Essa va pur riconosciuta
l’aspirazione spirituale che la vuole
impegnata nel raggiungimento della
concordia tra gli uomini, cosa
diversa da una pattuizione tra clienti.
Il
tempo della Chiesa studiato da
Bova risulta caratterizzato da questa
complessa dinamica,
in particolare da due eventi segnalati dall’autore:
la
minaccia dei Turchi e
la
minaccia dellapeste.
Le pergamene riguardanti i due
mali, politico-religioso l’uno e
sanitario-spirituale l’altro, sono
illuminanti
in tal senso.
La bulla Turcorum, inviata dal
papa Callisto III al re Alfonso, oltre a
implorare Dio nella difesa del
Cristianesimo minacciato dai Turchi,
concedeva indulgenze di varia durata ai
fedeli interessati alla sconfitta
dell’Islamismo.
La peste,
l’altro male documentato
dalle pergamene
in
esame, un
male
pandemico risalente al Trecento,
considerato come un castigo divino
inflitto ai cristiani peccatori,
reclamava
la
necessaria stesura di inventari
dei beni compromessi dalla peste, oltre
che dalle immancabiliguerre.
E la grande Storia dei conflitti
continua e continuerebbe angosciosamente
all’infinito, se non fosse vivacizzata
da note di vita quotidiana: pensiamo
agli inventari dei beni e degli oggetti
ecclesiastici e privati registrati nelle
perga- mene, insieme alle curiosità
riguardanti l’alimentazione,
l’abbigliamento, i mestieri, che hanno
meritato l’attenzione di Bova, sensibile
alla lezione francese delle “Annales”,
di quegli storici che si sono avvalsi di
altre scienze umane, quali
l’antropologia culturale e la psicologia
sociale, per approfondire la
storiografia, non certo per snaturarla.
Così troviamo sulle tavole il panis,
le ova, il caseum e l’equicaseum,
mine- stre di faseoli, cicera,
lenticule, carni di porci,
galine, quaglie, per
frutta le persice insieme alle
nespole e ai citrangoli, e per dolce il
bucellatum, ecc.
In cucina, le stoviglie: i plactelli,
le scotelle, la thianella,
il brorolaro de ferro, le
fressole de ferro e de rame, ecc.
In camera: il cobile, il
cossene, la cultra, ecc.
Si passa all’arredamento della casa,
agli abiti indossati, agli oggetti anche
preziosi tenuti in pegno…
Proseguendo nel tempo il viaggio di Bova
si allunga fino al 1497, ad una Carta
declarationis vendicionis, che offre
l’occasione per un chiarimento
etimologico su Sant’Angelo in Formis,
nel territorio capuano.
Nella Carta, che tratta della vendita
di una pezza presso Capua, sono presenti due
locuzioni: “in Formis” e “Informis”,corrispondenti a differenti
interpretazioni, su cui Bova s’interroga.
Intendendo per “Formis” un arco o un
canale arcuato, un acquedotto e per “Informis”
qualcosa di informale, di incorporeo,
consegue la differenza tra l’architettura
materiale e la spiritualità immateriale.
Sarà il bivio dinanzi a cui si trova la
Storia e insieme allo storico anche noi? A
voler concederci uno spazio metaforico,
uscendo dalla Storia per poi rientrarvi,
proviamo a vedere quell’arco come un
elemento unificante, una linea geometrica
ordinatrice, di quelle che va tracciando lo
storico quando
provvede a mettere insieme, non alla
rinfusa, uomini e cose.