G. BOVA, Le
pergamene aragonesi della Mater Ecclesia
Capuana (1443 – 1449),
III
L’età di Alfonso il Magnanimo
Palladio Editrice,
Salerno 2018, pp. 622, 27 foto a colori, 8
foto b/n
Da un volume di oltre seicento pagine che
cosa attendersi? Perché il lettore non resti
schiacciato dalla sua mole, ha da
oltrepassare la quantità della Storia
contenuta nel libro, ha da seguire piuttosto
la modalità storiografica adottata
dall’autore, per darsi un modo di leggere, o
ancora meglio, di studiare il testo.
Giancarlo Bova, che ne è l’autore, dalla
ponderosa materia raccolta, costituita dalle
“Pergamene aragonesi della Mater Ecclesia
Capuana” di metà Quattrocento, c’invita
ad estrarre lo spirito, conducendoci nel
percorso segnato nell’antico spazio
meridionale e conteggiato dal primo tempo
moderno, con quella severa passione, così
particolare, che lo distingue tra gli
storici medievisti in attività ai giorni
nostri.
La severità è degli studi condotti dal
Bova in profondità, di anni vissuti ad
indagare sotto le innumeri carte di un
determinato periodo storico (1443 – 1449),
come sotto gli scogli di un mare mai prima
esplorato.
La passione è nella sua ricerca,
continua, ripetuta, ma sempre nuova, negli
anfratti della Storia, fino al ritrovamento
delle cose che contano: le pergamene da
decifrare come pietre da scolpire, con la
forza del Tempo che presta le sue mani allo
storico.
Che cos’è se non passione quella di uno
storico come Giancarlo Bova?, che perviene,
e noi con lui, alla sensibilità e alla
mentalità dei soggetti narrati insieme agli
oggetti, con così umana premura.
Al logos dello studio dello
storico campano si aggiunge il pathos
della scoperta, fatta da chi ha toccato
veramente con mano le pergamene.
Ne ha tirato fuori i messaggi, ne ha
interpretato il senso, ne ha individuato il
concetto per poi modellarne la forma, il
pensiero degli uomini di quel tempo e i loro
strumenti per fare: lavorare, commerciare,
scambiare, comunicare, pregare.
Tutto questo emana dalle “membrane”, a
volte da soli “frammenti membranacei”, da
pergamene tanto lacere da non poter essere
ricostruite filologicamente “con certezza”.
E lo storico se ne rammarica, anche
pensando alle pergamene date “in restauro” e
di fatto trafugate, anche scoprendo le
“lacune” causate dalla scoloritura
dell’inchiostro, perché il colore è
importante, perché il rosso e il nero degli
inchiostri che risaltano sulla carta
accendono gli occhi dello storico, che ha il
gusto dell’“estetica”.
Un ordine, una bellezza ordinata, tiene
insieme le pagine del Bova che, pur non
tacendo le anomalìe: certo “cattivo stato di
conservazione” delle pergamene,
l’asportazione di “sigilli impressi in cera
rossa ai documenti”, le “sviste”
imperdonabili di storici principianti,
continua il suo lavoro storiografico
ininterrotto, da quarant’anni e più, mosso
dal bisogno etico, oltre che professionale,
di dare luce e voce a uomini e cose del Sud,
spesso riprovevolmente ignorato
dall’industria culturale.
Del Sud, della Campania, dell’area
capuana in particolare, qui lo storico
meridionale vuole considerare quel nuovo
ceto di intermediari fondiari, costituenti
l’albero motore, per così dire, della nuova
società in formazione nel cuore del
Quattrocento: uomini tardo-feudali, anche
neo-borghesi, prendono in affitto tenute
agricole di proprietà della Chiesa, o di
signori feudali, non solo assicurando un
buon livello di rendita ma anche un’intensa
attività economica, animata da una più
razionale e più redditizia amministrazione
delle terre, con un conseguente movimento
crescente dei prodotti agricoli nei circuiti
mercantili, prodotti propri delle colture di
alberi e piante in espansione.
Natura e denaro convivono, i moggi di
terra si prestano ad una loro valutazione
monetaria: dai “carlini” d’argento, ai
“tarì” d’oro, ai “ducati” che non sono pochi
quando la terra è buona.
Tra fitti e donazioni, ampliamenti e
ristrutturazioni, investimenti ed anche
speculazioni, se ne dedurrebbe una società
in crescita, migliorata, se non fosse per
gli strati inferiori del mondo rurale
condannati ad uno sfruttamento più duro che
nel passato, stridente con l’Umanesimo
promettente del tempo.
Quegli anni del Quattrocento hanno fatto
registrare sì stridenti contraddizioni.
Nei documenti d’età aragonese, relativi
ai fitti in enfitèusi, possono darsi terreni
sconnessi, sterili, incolti da
cinquant’anni; oppure terreni fertili,
floridi, vivacizzati da oliveti, vigneti,
nocelleti.
Alle starze abbandonate per la carenza di
braccianti dovuta alle guerre e alle
epidemie si contrappongono spazi popolati
d’alberi ed acque fluviali e torrentizie,
punteggiati da mulini, catalizzatori di
imprese e interessi economici, anche di
imprenditori lontani dal Capitolo Capuano
quali Fiorentini e Veneziani.
Capua e il circondario è l’area
d’elezione attorno alla quale ruota la
ricerca storica del Bova, con i suoi uomini
e le sue cose: gli uomini figli della terra
e della macchina, dotati dei loro strumenti
umani; le cose che portano sempre un nome,
che riescono a mantenere una loro identità,
pur esposte come sono alle transazioni
economiche, ai fitti e alle donazioni, alla
produzione e al commercio, allo scambio dei
beni.
Le botteghe artigiane in Terra di Lavoro
ci dicono della industriosità dei suoi
uomini e della loro capacità di
arricchimento: dalla lavorazione delle pelli
a Capua alla lavorazione del lino e della
canapa a Marcianise, terra benedetta, di
maceratoi ambìti anche da quei Napoletani
che riuscivano a riceverli in concessione
dall’Arcivescovo di Capua.
I luoghi e la toponomastica annessa hanno
un’importanza pari a quella attribuita agli
uomini e alle opere: c’è Bellona che
ha preso il suo nome da una dea,
Casapulla paese anch’esso col nome di un
dio pagano, c’è Triflisco dei boschi
e delle acque, c’è Capua nuova a
valle di Sicopoli con la sua fortezza
data alle fiamme dai Saraceni, i predatori
passati nell’856 per il Ponte de la Mala
Nocte.
Di luogo in luogo, allontanatici nel
tempo, ritorniamo a Capua del Quattrocento,
la città sul Volturno, scossa da eventi
anche naturali, drammatici, destinati a
volte ad alimentare l’imma- ginario
collettivo: il riferimento storico è al
terremoto del dicembre 1456, a breve
distanza dall’apparizione della cometa di
Halley nel giugno del medesimo anno.
Qui la cronaca buia della città di Capua
dove “morirono persone senza numero e le
case furono eguagliate al suolo” si
combina con la visione luminosa di una “strella
redonda e grande come uno occhio de boe, de
la quale ne uscìa una fiama larga a modo
d’una choda de paone”.
Come dire d’una terra ripiegata e d’un
cielo straordinario… anche questo è Storia.
Sotto gli occhi vigili del “giudice”, del
“notaio” e dei “testimoni”, che ritroviamo
immancabili in apertura d’ogni “carta
declarationis” (“concessionis”, “donacionis”,
“locacionis”, “vendicionis”),
come un refrain, scorre insieme al
Volturno la pellicola della vita ordinaria,
quella quotidiana, sociale, economica e
religiosa, incluso qualche fotogramma
straordinario, fuori dalla quotidianità, che
interviene a rompere la lunga, pur vera e
necessaria, teoria delle “Carte”.
Ci viene da indugiare su certe immagini,
valutate nell’esauriente “Introduzione”
dello storico, comprensivo custode
dell’immaginario collettivo: la principessa
Arniperga battezzata, da bambina o da donna,
chissà su quale corso d’acqua; il principe
Ǧem, partito dalla Turchia per morire a
Capua, dopo essere stato venduto e ceduto
più volte ai potenti della Terra; i duemila
buoi di Annibale dotati di fascine
infiammate sulle corna nella loro folle
corsa contro i legionari romani, secondo
quanto Tito Livio ci narra.
È bene, e il Bova lo pensa, che dinanzi
alle immagini narrate dagli storici, a
guardare un film della Storia, noi lettori
ci accendiamo, restiamo un attimo stupìti,
per poi continuare.