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UN FIUME, UNA VIA

note in margine a

Giancarlo Bova: “Le pergamene aragonesi della Mater Ecclesia Capuana (1439-1442)”

Palladio Editrice, Salerno
2016

 

   Fu Leonardo, uscito dal cuore del Rinascimento, a dirci della de-compartimentazione dei saperi e a darcene le sue stupende dimostrazioni.

   Da storico e non da artista, addetto alle letture interpretative del mondo che c’è piuttosto che alle congetture creative del mondo che sarà, Giancarlo Bova all’inizio della sua “Premessa” fa una preziosa puntualizzazione sul lavoro dello storico, chiamato appunto alla de-comparti-mentazione: vi si afferma, praticandola, un’idea di Storia avvalentesi di diversi saperi, di varie discipline quali l’antropologia, l’economia, la giurisprudenza, oltre all’araldica, l’onomastica, la toponomastica, insieme alla paleografia, alla diplomatica, all’archivistica, queste ultime particolarmente care al nostro Autore.

   Si potrebbe dire ancora qualcosa di più: la de-compartimentazione, che attiva ingressi e      uscite e rientri di sempre nuove conoscenze, si affianca idealmente alla sinestesìa, che non è solo una soluzione retorica propria della letteratura, ma è anche, nel nostro caso, una modalità storiografica seguìta dallo storico interessato a coinvolgere i suoi lettori, la loro mente, compresi i loro cinque sensi.

   Quanto ci raccontano “Le pergamene aragonesi della Mater Ecclesia Capuana” attrae la nostra vista, l’udito, l’odorato, il tatto, il gusto, sì da comunicarci sensazioni che mescolate  insieme possano impressionarci, oltre che informarci: quegli anni particolari nel cuore del Quattrocento hanno da lasciarci delle impressioni, dei ricordi incancellabili.

   E lo storico, per ottenere tali risultati, non gioca a rincorrere effetti speciali, non è il regista di una fiction, non assegna i ruoli agli attori sociali, lo storico ha da lavorare duro, per un numero incalcolabile di giorni, lasciando che grazie ai suoi studi sia il Tempo a disegnare i netti profili degli uomini e delle cose.

   È il lavoro di Giancarlo Bova che non nasconde di divertirsi così, dando prova che la puntualità dello storico non è greve come invece un malinteso concetto di Storia vorrebbe: essa, sostenuta dalla coscienza etica dello studioso, è pur movimentata dall’incoscienza felice del ricercatore, che a modo suo è uno scommettitore, uno che gioca a indovinare, e che a volte si dispera, quando per esempio le note apposte alle pergamene in epoche diverse non lo aiutano a risolvere il problema.

   Per lo storico, c’è sempre un problema in quello che il documento dice, nel modo in cui lo dice, anche in quello che esso tace.

   Da quarant’anni, estati roventi comprese, Bova è lì, puntuale, nel silenzio degli archivi, a svelare i corpi e le voci assenti, meritevoli di considerazione in questo nostro tempo sconsiderato.

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   Dicevamo della de-compartimentazione.

   Nell’epoca del Re Utriusque Siciliae, il Sud d’Italia, da L’Aquila a Catania, fu un grande porto di carri e natanti confluenti, animati da soggetti recitanti le loro vite sotto le guide laiche e spirituali, alla luce delle istituzioni e delle chiese, coinvolte negli accadimenti chiaroscurali franco-spagnoli.

   Di Capua, “capoluogo di circoscrizione regia e religiosa”, città sul fiume Volturno e sulla via Appia, lo storico meridionale ci spiega l’orgogliosa “Capuanitas”, l’identità particolare di una popolazione tanto territoriale quanto globale, protagonista di traffici commerciali e di feste religiose, pronta a coniugare con disinvoltura tarì e preghiere, ecclesiastici tesorieri in primis.

   Capua, una città oggi “appena indicata in una carta geografica”, in età medioevale non inferiore ad Amalfi, è stata crocevia di operatori economici locali e forestieri quali gli abruzzesi e gli umbri e stranieri dagli svizzeri ai russi passando per il Medio Oriente.

   Agli ecclesiastici di fiducia del re Alfonso il compito dell’amministrazione dei beni della Chiesa di Capua: soprattutto la percezione del censo “mediante la locazione di botteghe, terre, mulini e porti, con le relative tasse di entratura”; non solo locazioni, ma anche concessioni, anche vendite; e non solo promosse da enti religiosi, ma pure da privati.

   Dall’àmbito amministrativo a quello giudiziario, veniamo a sapere che i capitani di giustizia, prevalentemente spagnoli, si sono avvalsi della “collaborazione di giudici, bàiuli e sostituti locali”.

   Le vendite delle pezze di terra dietro la corresponsione di decine di tarì d’argento erano redatte dal notaio, figura, questa, frequentata dallo storico, interessato a tradurne quanto scritto  sulla pergamena con quell’inconfondibile sigillo “in cera rubea” che sembra voler riassumere un’intera civiltà in un simbolo.

   Ma il Medioevo, simbolista per eccellenza, avrebbe fatto pure spazio alla techne, accogliendo e diffondendo i primi sìntomi della modernità: del mulino idraulico, di cui si provvedono le chiese, i monasteri, oltre alle famiglie benestanti, si sarebbe promosso un utilizzo allargato a varie attività, “dalla macina del grano alla segatura del legno, delle piante, delle fibre”.

    L’edilizia, in riparazione e in espansione, voleva il rifacimento dei tetti e il controllo dei ponti, oltre all’edificazione di nuovi castelli e all’innalzamento di nuove torri.

   E le famiglie che vi abitavano?, i loro nomi? “È sempre abbastanza complesso poter ricostruire dai documenti l’origine di un gruppo familiare, a meno che esso non abbia fatto qualcosa di eccezionale, passando per così dire alla Grande Storia, lasciando memoria di sé”, risponde lo storico, invogliato, come per una compensazione, alla ricerca di documenti che dicano dei piccoli nuclei familiari della “piccola storia”: si legga, a mo’ d’esempio, quanto lo storico scrive della famiglia Cece con le sue varianti Cecio, Ceci, Cecere, ecc. (dal latino     cicer a voler indicare un’“escrescenza rotondeggiante sul viso” al toscano popolare cecio relativo alla “pianta erbacea delle leguminose”), d’origine laziale-romagnola e da secoli presente in Campania, a partire dal cognomen di Marco Tullio Cicerone fino al garibaldino Gaetano Cecio di S. Maria Capua Vetere decorato con medaglia tra i “Benemeriti della Liberazione di Roma 1849-1870”.

   Pur mantenendo la centralità degli anni del Quattrocento, 1439-1442, si può sconfinare nel passato e nel futuro di quel tempo, dimezzando e raddoppiando, dal Duecento di Federico II all’Ottocento del Risorgimento, a dimostrazione della dinamicità della Storia, delle mobili irradiazioni di una città significativa come Capua.

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   Dicevamo della sinestesìa.

   Sullo sfondo del grand récit di Bova si stagliano le figure nitide della società capuana quattrocentesca: i terrìcoli, i naviganti, i mercanti ancor più degli amministratori, con la loro canapa soprattutto, a fondamento dell’economia in Terra di Lavoro.

   Salgono le voci, dei dialetti e delle lingue, a dire delle diverse culture, delle loro misture, destinate ad arricchire Capua, non certo a depauperare la città come qualche maldestro storico razzista sosterrebbe: lingue mediterranee e mediorientali, dialetti del Centro-Nord d’Italia, flessioni napoletane trattandosi della Campania, e timbri particolari, quali quelli femminili, delle badesse addette a smistare il traffico dei servizi, delle corresponsioni monetarie, dei capponi di Natale, dando ordini anche verbali, chissà se bruschi o aggraziati.

   Ed insieme ai suoni gli odori: dei profumieri e degli stallieri, provenienti dagli alambicchi e dagli animali, soprattutto la puzza della canapa macerata nei lagni, in quelle conche naturali alla periferia di Capua.

   Una buona narrazione storica può coinvolgere anche il tatto del lettore: ci sembra di toccare con mano quella pagnotta data insieme ad una misura di vino dal monastero al lavoratore giornaliero, con lui sistemiamo gli assi dei carri, mettiamo i cerchi alle botti, lisciamo la cotenna della bufala uscita idratata dal garamone.

   Contadini, coltivatori e allevatori non solo, anche ubriaconi e meretrici fanno parte dell’u-manità che lo storico non può ignorare, insieme ai frutti lussureggianti o bacati che la natura procura: come disconoscere, per esempio, il gusto delle castagne e delle mele della nostra terra?

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   È il destino dello storico: di ritornare alla sua terra, dopo aver attraversato i meridiani e i fusi d’ogni spazio e d’ogni tempo… si riproducono quei frutti di Terra di Lavoro ogni autunno che viene, si ripropongono le acque del Volturno verdi sotto ogni sole promettente, si rincorrono a tutt’oggi le voci degli ambulanti lungo l’Appia, ignari eredi d’un tesoro, custodito in un libro di Storia.

 

   Antonio Falcone

   Firenze, settembre 2019

 

 

 

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Aggiornato il: 15 dicembre 2019