Le pergamene
angioine della Mater Ecclesia Capuana
(1283-1292)
ed. Palladio,
Salerno, 2019
La macina della Storia continua a
girare, non sempre spietata, a volte
disposta ad accogliere certi buoni
umori degli uomini, riconoscendone le
aspirazioni religiose che trovano nella
Chiesa il loro luogo istituzionale,
l’officina delle anime aspiranti alla
salvazione, individuale e collettiva, alle
condizioni d’un esercizio spirituale
richiedente non solo l’afflato del fedele,
ma anche l’adesione del cittadino ai codici,
ai calcoli, ai conseguenti comportamenti
previsti dalle istituzioni laiche e
religiose, addette all’organizzazione della
vita di ogni uomo.
Lo Stato e la Chiesa si ritrovano
reciprocamente compromessi nella recente
opera di Giancarlo Bova: “Le pergamene
angioine della Mater Ecclesia Capuana”,
relative al periodo 1283-1292, successivo al
già edito 1281-1282.
Siamo a Capua, al tempo dei sovrani
angioini, verso i quali i Capuani hanno
mostrato costantemente “affetto e
devozione”, a partire da Carlo I (re di
Sicilia e di Napoli, poi a causa della
sommossa palermitana del 1282 solo re di
Napoli), seguìto dal nipote Carlo Martello,
reggente negli anni della prigionia del
padre Carlo II in Sicilia per mano degli
Aragonesi.
A dimostrazione dei rapporti stretti tra
mondo laico e mondo religioso, valgano due
annotazioni dello storico: Carlo Martello
operò sotto la protezione di papa Martino IV;
Carlo II, una volta liberato, sarebbe stato
incoronato re da papa Bonifacio VIII.
Siamo sul finire del ’200, alle porte del
’300, quando il passaggio dall’Alto Medioevo
feudale e cavalleresco al Basso Medioevo
comunale e commerciale fa registrare
un’intensificazione dell’economia, che la
Chiesa è chiamata a riconoscere.
Ne sono una testimonianza le transazioni
economiche della Chiesa capuana nel contado:
da Capua Vetere a Camigliano, da Marcianise
a Capodrise, da S. Prisco a S. Tammaro, da
Curti a Recale, da Caserta alla più lontana
Castelvolturno…
Le transazioni economiche hanno toccato
anche numerose chiese del centro di Capua,
monasteri limitrofi, nonché ospedali:
immobili destinati ad un probabile
abbandono, rimessi in vita dalle Carte “concessionis,
donacionis, locacionis, vendicionis”.
All’immancabile “presenza del giudice,
del notaio e dei testimoni”, si concedono,
si donano, si locano, si vendono pezze di
terra, richiedenti un costo, promettenti un
realizzo.
È un traffico di once e di tarì d’oro,
motivato da interessi economici, anche se
non sono da escludere le aspettative
spirituali: tra i concessionari, i donatari,
i locatari, gli acquirenti, non manca chi
dichiara la destinazione del denaro alla
congregazione in un particolare giorno
festivo del calendario cristiano.
Oltre alle transazioni, lo storico
medievista ha considerato i contratti, di
diversi tipi: dal “livello” (il contratto di
affitto per 29 anni con la clausola di un
rinnovo con l’impegno di un miglioramento
della terra concessa, non per 30 anni che
avrebbero legittimato il concessionario a
rivendicare la proprietà di quella terra);
all’“estaglio” (l’affitto di una terra a
cottimo, che prevedeva la remunerazione del
colono secondo il risultato ottenuto);
all’“enfitèusi” (l’af- fitto per un tempo di
3 generazioni o per sempre); alla “precaria”
(la concessione provvisoria di un immobile
presupponente la domanda in forma di
preghiera).
Bova si muove a suo agio nel ginepraio
delle pergamene, col gusto dell’in-
quisitore, nel senso storiografico del
termine, suggerito da Carlo Ginzburg che
raccomanda allo storico la massima
attenzione alle “spie”, agli indizi,
prerogativa dello scienziato, del
ricercatore, dello studioso di uomini e
cose.
La Storia rinvìa alle storie di
predicatori e di lavoratori, intenti a
curare l’anima e il corpo, quanto c’è di
spirituale e di materiale nella vita degli
uomini, nei loro traffici, nei loro scambi
di beni benedetti, crescenti in un tempo
prossimo alla modernità.
Lo storico, mosso da una curiosa
passione, rintraccia quelle storie, ne
recupera i sensi persi, ne ricuce le pagine
sparse, narrandone le origini e i destini,
alle dure e pur piacevoli condizioni di una
ricerca storiografica puntuale e profonda,
che sia da mònito ai troppi sedicenti
storici frettolosi e superficiali, talvolta
non estranei al plagio, circolanti
nell’inaffidabile mercato editoriale dei
giorni nostri.
Le ricerche di Bova, compresa
quest’ultima, sono attraversate dalla
scienza non disgiunta dall’entusiasmo:
sembra che lo storico si disperi per poi
divertirsi nelle sue indagini, per esempio
nella scoperta di “fori”, “lacune”,
“lacerazioni” delle pergamene prese in
esame, tali da causare la perdita di decine
di lettere, che però lo studioso s’impegna a
integrare ricorrendo a letture di pergamene
coeve o tentando congetture, richieste dalla
sua attività investigativa.
Va riconosciuto il lavoro particolare del
medievista, al continuo inseguimento della
“scrittura minuscola gotica” dei documenti,
del “signum del notaio” spesso di
difficile interpretazione, del “signum
del giudice” costituito da varie figure
non sempre immediatamente leggibili: un
segno di croce, un pugno chiuso, una sorta
di giglio…
A sventare il rischio di un lavoro
routinario, intervengono luoghi, testamenti,
eventi, da accendere la curiosità del
lettore.
Riportiamo alcuni esempi.
Dei luoghi: S. Angelo in Formis,
con quella sua denominazione che si presta a
più di un’interpretazione (“in formis”,
“presso acquedotti”; “informis”,
“incorporeo”, immateriale come può essere un
angelo; “forma”, “mappa catastale”
dei beni della basilica di S. Angelo).
Dei testamenti: Nicola figlio del fu
Giacomo nomina suo erede il figlio
Angelo, stabilisce una somma di denaro da
destinare ai sacerdoti per i suoi funerali,
prenota 500 messe cantate da religiosi e 500
da sacerdoti secolari per la sua anima,
chiede cha a una settimana dalla sua morte
siano distribuiti pane e caciocavallo ai
poveri, decide la chiesa dove seppellire il
suo corpo, definisce la costruzione di 3
altari in onore della Vergine Madre di Dio –
di S. Michele – della Croce di Gesù, destìna
altro denaro ai frati minori di Capua – ai
frati di S. Agostino – agli ospedali di S.
Giovanni e di S. Lazzaro, lascia la sua casa
alla moglie Giuliana a condizione che gli
resti fedele dopo la sua morte, altri beni
alla sorella Pavia.
Degli eventi: il Carnevale di Capua,
menzionato per la prima volta in un atto del
1272 dove la badessa Rogasia del Monastero
di S. Giovanni delle Monache concede a
Roberto Testor una pezza di terra sita a
Casa Cerere presso S. Angelo in Formis a
condizione che il concessionario s’impegni a
consegnare ogni anno 2 tarì di Amalfi e 2
galline (più avanti nel tempo, nel ’500, lo
storico annota con ironia che alle tenere
“carni di gallina” si sarebbero sostituite
le impure “carni di porco”, da procurarsi “a
sufficienza per tutto Carneuale”
insieme al “lardo” e all’“insogna”).
Last but not least: merita
altrettanta attenzione la cura grafica del
testo del nostro storico sammaritano: le 600
e più pagine avorio, le foto in bianco e
nero, quelle a colori vivaci, comprendenti
un mondo di borghi e di carte attestanti la
vita attiva dell’ultimo Medioevo al crocevia
tra l’inquietudine delle anime e la
scommessa degli affari.
A voler conoscere le ansie e le
aspirazioni degli uomini di quegli anni
1283-1292 c’è da passare per le porte delle
città, da entrare nelle case e nelle chiese,
da salire sui loro campanili.
C’è da familiarizzare con gli stemmi dei
reali, dei clericali, delle famiglie, così
come con le fotografie dei monumenti laici e
religiosi raccolti nell’accu- rato inserto
insieme ai ritratti e ai bronzi raffiguranti
persone care all’Autore, fino all’ultima
“cappellina piena di storia”.
Dulcis in fundo, ma anche in
principio, la “Madonna col Bambino” in
copertina, risalente al ’300, ospitata nella
Chiesa della Madonna delle Grazie di S.
Maria Capua Vetere, ottimizzata da un
giovane bravo fotografo, Graziano Bova:
quella donna che nutre al seno la sua
creatura, le dita affusolate di entrambi, i
volti candidi e rosati, tra l’oro e la
porpora, sotto il manto bianco, sembrano
voler proteggere anche noi, nutrirci alla
fonte della vita.